La fenomenologia della diversità

Giornali e telegiornali, post sui social: sono giorni che sento parlare della nuova modella di Gucci.

Qui non si discute se Armine Harutyunya sia bella o brutta (la bellezza dicono sia definita dai canoni della sezione aurea, bah), non si discute della genialità di Alessandro Michele (che sì va beh, è un genio), non si discute di body shaming (di cui ultimamente ci si riempie la bocca), qui parlo di relatività dei modi di vedere e dell’accettazione della fenomenologia della diversità.

La variabilità dell’esperienza umana è affascinante: è ciò che consente di non annoiarsi mai e stupirsi sempre (gli insulti beh, quelli fanno schifo).

La ricerca della forma perfetta, i tentativi coatti per rimanere giovani, le ore passate in palestra come narcotico per combattere la non accettazione di sé (nota bene: l’attività fisica moderata e sana è cosa buona e giusta): la scelta della maison va a scardinare i prototipi di come dovremmo essere.

Ma poi chi definisce come dovremmo essere? Chi stabilisce cos’è la cosiddetta “perfezione”?! Ditemi voi: cos’è la perfezione?

Per me è un ideale. E come tale, nel mondo reale semplicemente non esiste.

La moda è un po’ che ce lo sta dicendo: vediamo sfilare modelle che non sembrano più le Barbie con cui giocavo da bambina.

Photo credit: Sandy Skoglund

L’accettazione di ciò che siamo non è rassegnazione, non è un vabenetutto: accettare significa coltivare un atteggiamento gentile e aperto verso noi stessi.

Tutti siamo esseri imperfetti (nessuno escluso!): questa è semplicemente la natura dell’essere umano ed è normale trovare in noi qualcosa che non ci piace.

E l’imperfezione è ciò che ci rende unici e irripetibili.

Apriamoci alla diversità e il mondo si dipingerà dei colori dell’arcobaleno – che poi, sai che noia un mondo in bianco e nero?!

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